25 Aprile – Ricordi di bambino – di Luigi Valmigli, sfollato con la famiglia a Silvano d’Orba.

Abbiamo ricevuto un ricordo del 25 aprile che merita essere riportato; alla richiesta di pubblicazione l’autore ci risposto così: “Con grande piacere l’autorizzo a pubblicare il mio testo nel sito del Comune di Silvano d’Orba. Considero questo un grande onore. Ai figli, ai nipoti e ai bisnipoti di quelle persone che ci hanno accolto a Silvano auguro di conservare quei valori sociali che oggi mi consentono di ricordare quell’umanità che ci ha aiutato a non perdere la speranza anche in quegli anni così tragici. Grazie a lei e a tutti i silvanesi. Luigi Valgimigli”.

E’ Lei, Signor Luigi, che ci onora; ecco il testo:

Buongiorno signora maestra.

La guerra, la Resistenza e la Liberazione nei miei ricordi di bambino di Luigi Valgimigli Genova, 1942.

Era una notte d’autunno, mio papà, mia mamma, la mia sorellina e io (che avevo da poco compiuto 5 anni) camminavano verso Via Pertinace, dove abitavano i miei zii e i miei cugini. Poche ore prima erano suonate le sirene e, come succedeva a ogni allarme, la mamma prese la borsa con alcune coperte e un termos pieno di latte caldo, papà prese in braccio la sorellina di tre anni e, di corsa, ci recammo al vicino rifugio. La nostra casa e il rifugio erano in Piazza dell’Olivella a poche centinaia di metri dal porto (che oggi si chiama Porto Antico ed è diventano un luogo turistico con musei, centri culturali e il grande Acquario progettato da Renzo Piano). Nel rifugio, seduti su panchine, sentivamo il rombo dei bombardieri e le esplosioni delle bombe che cadevano lì vicino. C’erano donne che urlavano e piangevano e alcuni uomini cercavano di calmarle dicendo: “fra pochi minuti il bombardamento finirà e potrete tornarvene a casa”. Ma noi a casa non ci tornammo perché il nostro palazzo era stato colpito da una bomba, era in gran parte crollato e stava bruciando. Mio padre disse: “Andiamo dallo zio Alberto, forse la sua casa non è stata bombardata”. I miei zii e i miei cugini abitavano a meno di un chilometro da noi. Percorremmo la strada cosparsa di tizzoni tra palazzi distrutti che continuavano a bruciare.

Sfollati in Piemonte.

La casa dello zio Alberto non era stata colpita dai bombardamenti e così, per qualche giorno, ci sistemammo lì. Poi ci trasferimmo come “sfollati” in Piemonte, a Silvano d’Orba, un paese in provincia di Alessandria vicino a Lerma e a Castelletto d’Orba dove vivevano mio nonno e alcuni zii, tutti contadini. Quando arrivammo a Silvano faceva freddo, il podestà ci fece portare della legna per la stufa. Qualche giorno dopo arrivò mio nonno con un carro trainato dal bue Rosso, pieno di legna, mele, polenta, qualche salume e una gallina a cui aveva appena tirato il collo. Dietro la nostra casa c’era un comando della Wehrmacht. Allora i tedeschi erano nostri alleati e i soldati erano gentili con gli abitanti del paese. Ancora non si sentiva parlare di partigiani, ma molti silvanesi, per lo più contadini, avevano familiari o parenti renitenti alla leva che nell’ambiente contadino riuscivano a nascondersi quando avvenivano i rastrellamenti. Mio padre era antifascista del Partito Popolare, alcuni dei miei parenti contadini erano comunisti. Nei miei ricordi un po’ confusi mi sembra che nella piccola frazione di Silvano d’Orba dove abitavo non ci fossero fascisti (in realtà qualcuno c’era, ma io ricordo che, durante la Repubblica Sociale, ogni tanto arrivavano partigiani, sicuri di trovare la solidarietà di tutti gli abitanti). A casa nostra c’erano nascosti una radio e una macchina da scrivere. Dopo l’armistizio i partigiani vennero a prenderli. Ricordo che un giorno arrivò un partigiano e si nascose dentro il grande camino. Poco dopo entrarono i tedeschi e perquisirono la casa. Noi avevamo paura perché, se i tedeschi lo avessero scoperto, avrebbero fucilato mio padre e bruciato la casa. Un soldato giovanissimo guardò dentro il camino, ma non vide il partigiano (ancor oggi io conservo l’impressione che, in realtà, fece finta di non vederlo). Alla fine della guerra il comando partigiano rilasciò a mio padre una dichiarazione che aveva collaborato con la Resistenza.

Le dimissioni di Mussolini e l’armistizio.

Il 25 luglio 1943 vi furono le dimissioni di Mussolini. Ricordo che in paese tutti erano contenti perché erano convinti che la guerra sarebbe finita. Ma Badoglio (capo del nuovo governo) disse “la guerra continua”, i tedeschi continuarono ad essere nostri alleati e la loro presenza appariva sempre più predominante. Aumentarono i controlli. Ricordo che lungo la strada che percorrevamo per andare da mio nonno era stato creato un posto di blocco. E noi avevamo paura mentre mio papà parlava con i soldati e mostrava i documenti. Poi quando la guardia alzava la sbarra, tutti tiravamo un sospiro di sollievo. L’8 settembre 1943 ci fu l’armistizio. Ma mio padre e altre persone dissero che l’armistizio non segnava la fine della guerra perché Badoglio e il re erano fuggiti lasciando l’Italia e l’esercito in mano ai tedeschi e ai fascisti. Il rapporto tra i tedeschi e i silvanesi cambiò radicalmente, i tedeschi non erano più alleati ma nemici alleati con i fascisti. Cominciai a sentir parlare di giovani che disertavano dall’esercito, di partigiani armati, di attentati contro tedeschi e fascisti e di rappresaglie crudeli. La gente era preoccupata e le preoccupazioni aumentarono quando si seppe che Mussolini era stato liberato dalla prigione del Gran Sasso. Poco dopo il Duce fondò la Repubblica Sociale Italiana che comprendeva anche il Piemonte. La presenza dell’esercito tedesco in tutta l’Italia del Nord si faceva sentire in modo sempre più pressante. La gente diceva che Mussolini era un fantoccio nelle mani di Hitler e che le SS controllavano sempre più l’esercito tedesco. Io non sapevo chi fossero le SS, ma mio papà e mia mamma dicevano che erano persone crudeli e senza alcuna pietà. Ogni tanto arrivavano notizie di partigiani fucilati o impiccati, e immagini di fiamme che avvolgevano case o interi quartieri (come Rossiglione) bruciati dai tedeschi per rappresaglia contro cittadini che avevano dato appoggio ai partigiani. Il crescente clima di odio, aggiungeva spesso episodi di crudeltà alle esecuzioni. Episodi che gli adulti cercavano di nascondere a noi bambini, ma non riuscivano a nascondere le loro parole di rabbia e di dolore quando circolavano notizie come quella di un giovane partigiano impiccato a un lampione esposto lungo la strada. Arrivarono anche notizie di stragi compiute da tedeschi e fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana. Come la strage della Benedicta, una località dell’Appennino ligure in provincia di Alessandria dove furono fucilati 75 partigiani. Qualcuno aveva composto una canzone e i miei cugini me la insegnarono. Ricordo le parole: ottanta croci fatte di legno/ci han fatto segno/la libertà.

A Silvano non ci furono bombardamenti come a Genova ma ogni tanto arrivavano aerei che sganciavano bombe. Non c’erano le sirene ma quando sentivamo il rombo di un aereo noi scappavamo nelle vigne dove – dicevano – grazie al terreno morbido le bombe non sarebbero esplose. Un giorno io e mia sorella eravamo al fiume Orba con la mamma che andava lì a lavare le lenzuola. Arrivò un aereo e la mamma ci fece correre sotto un ponte lì vicino. Mio padre spiegò che questa era stata una decisione pericolosissima perché il ponte era un possibile obiettivo militare. Per fortuna, l’aereo era un ricognitore.Finalmente arrivò il 25 aprile 1945. Le campane suonarono a festa e io feci un disegno con le campane e la gente che festeggiava. Nella frazione Villa Superiore (che noi chiamavamo Villa di Sopra) non ricordo di aver visto scene come quelle che, in altri luoghi, hanno caratterizzato l’arrivo degli alleati. Forse le jeep delle truppe alleate erano giù nel paese. Nei miei ricordi di quel giorno, i liberatori erano i partigiani con il fazzoletto rosso, tra cui c’erano diversi giovani di Silvano e dei paesi limitrofi. Molta gente, adulti e bambini, si era radunata nella piazza antistante la chiesa. A un certo punto arrivò un gruppo armato. Erano stranieri, qualcuno disse che erano “mongoli” e la gente li guardava con diffidenza. Ricordo che entrarono in chiesa, portano fuori il parroco poi lo presero a calci facendogli fare il giro nella piazza. Arrivò di corsa un gruppo di partigiani, parlarono con i “mongoli” che liberarono immediatamente il parroco. Forse – ipotizzò qualcuno – i “mongoli”, avendo visto il prete vestito di nero, avevano pensato che fosse un gerarca fascista. In questi giorni ho cercato di documentarmi tramite il web, ma non sono riuscito a trovare notizie sulla presenza di liberatori “mongoli” a Silvano d’Orba.

La pagella della prima elementare con la firma di Mussolini.

Il 31 maggio del 1944 ho ricevuto la pagella della prima elementare. Riguardandola oggi mi sono meravigliato di vedere la pagella con lo stemma fascista, la scritta Opera Balilla e la firma di Mussolini. Il governo fascista era caduto e in quel periodo, formalmente, il governo italiano era guidato dal maresciallo Badoglio. Ricordo che un mio zio comunista era molto arrabbiato con Togliatti che aveva accettato di collaborare con quel Badoglio che aveva ordinato di sparare contro i manifestanti che esultavano per l’arresto di Mussolini e, dopo l’armistizio, si era preoccupato soltanto di salvare in fretta la famiglia reale lasciando l’Italia in mano ai tedeschi. Quando mi fu consegnata la pagella, il Piemonte, come tutto il Nord Italia, faceva parte della Repubblica Sociale Italiana costituita e governata formalmente da Mussolini ma, in realtà, occupata dagli “alleati” tedeschi che lasciavano al Duce ben pochi spazi, come quello di continuare a mettere la sua firma sulle pagelle scolastiche.

Dal saluto fascista a “Buongiorno signora maestra”.

Ho ripensato alla scuola di Silvano che ho frequentato dal ’43 al 45. Mi sono ricordato che, durante la prima elementare, quando entravamo in classe dovevamo fare il saluto fascista. Poi quando frequentavo la seconda, le cose cambiarono. A un certo punto, ci dissero che non dovevano fare più il saluto fascista ma il saluto militare con la mano appoggiata sulla fronte (non ricordo se questa regola valeva anche per le bambine) Subito dopo il 25 aprile 1945, per alcuni giorni salutammo con il pugno chiuso dei partigiani, quelli del fazzoletto rosso che erano gli unici partigiani che avevo visto a Silvano (e mi meravigliai quando mio padre mi disse che c’erano anche partigiani cattolici con il fazzoletto bianco). Finché un giorno la maestra ci disse: “Quando entrate in classe dite soltanto: buongiorno signora maestra”.

Con quel buongiorno signora maestra eravamo finalmente diventati cittadini.

Tutti noi scolari avevamo scritto nel quaderno frasi sulla Liberazione. Festeggiavamo la fine del fascismo e della guerra, e non ci rendevamo conto degli orrori della guerra civile da cui i nostri genitori avevano cercato di tenerci lontano. La maestra, nel leggere i nostri scritti, si mise a piangere. Io e i miei compagni non capimmo il perché, poi a casa mi spiegarono che i partigiani avevano fucilato suo figlio che era fascista. Questi ricordi imprecisi e confusi hanno confermato la mia convinzione che, oggi più che mai, sia importante commemorare la data del 25 aprile. È un giorno di festa perché segna la fine di una terribile tragedia che, anch’essa, non va dimenticata. In proposito, ho ritrovato una frase pronunciata a Milano, nel decimo avversario della liberazione del Nord, da Alfredo Pizzoni (1894 – 1958), partigiano e politico italiano. La riporto come sintesi di questi miei ricordi.

La guerra civile, che insanguinò l’Italia e intorbidò le coscienze di tanti italiani, noi non la volemmo […] noi la subimmo; dovemmo accettarla e combatterla, combatterla con animo angustiato e col cuore oppresso, perché così dovevamo agire, ed era grave sofferenza rivolgere le armi contro italiani, anche se indegni o illusi, pur sempre figli della stessa patria (),.

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